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GLI ORDINI E I COLLEGI PROFESSIONALI: ALLA PERSISTENTE RICERCA DI UN’IDENTITA’ GIURIDICA NELLA VIGENTE DISCIPLINA DEI CONTRATTI PUBBLICI

Gerardo Soricelli* e Antonio Maiella

Sommario: 1. Premessa – 2. Alle origini storiche della natura giuridica degli ordini e dei collegi professionali: dall’associazionismo naturale all’ente pubblico associativo? 3-Le ragioni che propendono per un inquadramento degli ordini e dei collegi professionali nella categoria degli enti pubblici associativi -4. I caratteri che rivelano l’applicabilità agli ordini e ai collegi professionali della disciplina del Codice dei contratti pubblici: interpretazione sistematica dell’art. 3, comma 1  del Codice contratti pubblici o estensione epistemologica della nozione di “organismo di diritto pubblico? – 5. Una possibile  conclusione.

  1. Premessa

Il tema principale oggetto del presente saggio, ossia l’applicabilità agli ordini e ai collegi professionali della disciplina del Codice dei contratti pubblici, potrebbe apparire di natura specialistica e limitata nei suoi sviluppi sistematici e di carattere generale. Tale impressione è destinata ad essere smentita, allorché si consideri la difficoltà di individuare l’esatto inquadramento di tali strutture nella disciplina del diritto pubblico o, meglio, nella tematica del diritto dei contratti pubblici. Il percorso che si seguirà nella presente esposizione prenderà le mosse da alcune definizioni e concetti fondamentali di carattere storico sulla nascita degli ordini e dei collegi professionali, per poi soffermarsi sulla natura giuridica di tali entità. Tutto ciò al fine di individuare una loro collocazione nell’ambito delle cd. “amministrazioni aggiudicatrici”, quali strutture tenute all’applicazione delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici ( D.lgs n. 50 del 2016)

  • Alle origini storiche della natura giuridica degli ordini e dei collegi professionali: dall’associazionismo naturale all’ente pubblico associativo?

Come è noto, le origini storiche degli ordini e dei collegi professionali rilevano come, sin da subito, uno dei pilastri sui quali venne fondata la loro alterità rispetto allo Stato fu, senza dubbio, la complessa organizzazione, strutturale e formale, di tali cooperazioni. Al riguardo, notizie di prime aggregazioni professionali riguardarono i medici dell’antica Grecia. Ne fecero fede le aggregazioni che sorsero intorno al tempio di Esculapio.  La conferma positiva della rilevanza giuridica di tali corporazioni si ebbe nell’età romana classica con i cd. “collegia opificium”  e, sotto l’impero bizantino,  con la corporazione dei notai e dei giuristi.[1] Solo nel medioevo i gruppi professionali presero coscienza della loro forza politica e sociale con l’estensione delle forme associative in materie fino ad allora sconosciute come le attività produttive e le professioni intellettuali. Nonostante tale consapevolezza, gli organismi corporativi divennero autonomi di fronte allo Stato dall’anno mille in su ma tale “bisogno” di autonomia si trasformò ben presto in costituzione di “caste privilegiate”, munite di propri poteri a difesa degli interessi del gruppo. (si pensi alle corporazioni dei medici, degli speziali ( farmacisti), degli avvocati, dei notai e dei giudici).[2] Divennero quindi pressanti le “esigenze” di eliminare tali privilegi; cosa che avvenne puntualmente con la legge Chapelier del 17-6-1791 che decretò lo scioglimento delle corporazioni, vietandone di fatto la ricostituzione in quanto lesive dell’interesse generale della collettività. Ben presto, l’esigenza di fornire maggiore tutela alla rilevanza politica e sociale delle professioni divenne più forte e maggiormente avvertita. Ciò per un doppio ordine di ragioni, l’uno relativo all’acquisita importanza “pubblica” rivestita dagli ordini professionali, sempre di più posti a tutela dei cd. “diritti sociali” dei cittadini, l’altro dipendente dalla maturazione di un deciso orientamento teso a individuare nello Stato il garante della “legalità” e della “trasparenza” dell’esercizio delle professioni. Su questa scia, con l’avvento nel XIX secolo, lo Stato italiano, dopo la sua unificazione, riconosce agli ordinamenti professionali sulla base della importanza della loro funzione “sociale”. Nascono, così, i primi ordini professionali, disciplinati con criteri di organicità e di efficienza, tra cui quello relativo alle professioni di avvocato e di procuratore legale, attuato con legge 8 giugno 1874, n. 1938, con relativo regolamento approvato con R.D. 27 luglio 1874, n. 2012, poi riformulate con legge 25 marzo 1926, n. 453. Le leggi successive furono emanate per disciplinare le professioni di notaio (r.d. 25 maggio 1879, n. 4900, modificato con legge 26 febbraio 1913, n. 89), di sanitario (legge 10 luglio 1910, n. 455 e r.d. 12 agosto 1911, n. 1062, di ingegnere, architetto, perito agrimensore (geometra) e tecnico (legge 24 giugno 1923, n. 1395 e r.d. 23 ottobre 1925, n. 2537). [3] Con il crollo del fascismo, si soppressero i cd. “sindacati professionali” (D.lg.Lt. 23 novembre 1944, n. 369) e ritornarono in auge, su basi democratiche, i vecchi ordini e collegi professionali, con la contestuale revisione degli albi ( D.lg.Lt 23 novembre 1944, n. 382).[4]Da rilevare che, intorno agli anni trenta del secolo scorso, si verificò la coesistenza dei vecchi ordini e collegi coi sindacati professionali; oggi, come è noto,  vige la distinzione  tra le due figure tipiche dell’Ordine e del Collegio. Essa si basò sul diverso livello di formazione scolastica preventivamente richiesto per l’esercizio della corrispondente attività: negli ordini l’attività professionale richiede il possesso del titolo di laurea, nei collegi le attività relative richiedono il titolo di diploma. [5]  All’indomani della “codificazione “delle corporazioni professionali, la dottrina si interrogò su una possibile questione giuridica sottesa alla configurazione  dell’autonomia organizzativa,  gestionale e funzionale di tali strutture.[6] Essa venne riconnessa al problema della soggettività giuridica delle medesime nell’ordinamento statale. In tal modo gli ordini e i collegi professionali costituirono figure organizzatorie di gruppi omogenei di componenti della comunità sociale, implicitamente o esplicitamente dotate di personalità giuridica di diritto pubblico, con le quali l’ordinamento giuridico assicurò specifici interessi pubblici.[7] In altri termini, oggi, tali strutture “professionali” sono la “proiezione sul piano dell’apparato statuale dell’assetto sociale che naturalmente si determina fra coloro

che,, svolgendo una medesima funzione di rilevanza pubblica, sono portati a tipizzarne i connotati…”.[8] Sta di fatto che l’ente professionale si configura come un soggetto giuridico collettivo identificato sul gruppo professionale localmente organizzato, ma sistematicamente diffuso su tutto il territorio nazionale e dotato di autonomia ed autogoverno, proprio al fine di tutelare direttamente gli interessi del gruppo e, indirettamente, gli interessi pubblici. Un gruppo professionale che si autolegittima e che si costituisce come associazione obbligatoria a partecipazione limitata e “controllata a difesa degli interessi del gruppo e a tutela del monopolio della relativa attività professionale”.[9] Una tale condizione pone l’importanza ontologica di individuare la natura giuridica degli enti professionali, per un’esatta collocazione all’interno del sistema ordinamentale.

3. Le ragioni che propendono per un inquadramento degli ordini e dei collegi professionali nella categoria degli enti pubblici associativi

Com’è noto, da tempo, una parte della dottrina[10] si interroga sulla natura giuridica degli ordini e dei collegi professionali, in bilico tra il mero riconoscimento di un “associazionismo” naturale, dotato di elementi pubblicistici e la figura dell’ente pubblico associativo. Per giungere ad una teoria accettabile sul piano pratico e giuridico occorre partire da alcuni principi costituzionali che indicano il percorso più chiaro per giungere ad una qualificazione quanto più corretta della natura giuridica dei citati soggetti professionali. Malgrado si sia sostenuto il contrario, la Carta costituzionale del 1948 è ricca di riferimenti, sia diretti che indiretti, all’esercizio dell’attività professionale. Secondo la dottrina, l’esercizio di un’attività professionale costituirebbe esplicazione di quel diritto costituzionalmente protetto che è il diritto al lavoro, di cui all’art. 4, comma 1, Cost. e sarebbe garantito come diritto di libertà di scelta del tipo di lavoro e del modo di esercitarlo.[11] Ma tale diritto non è illimitato ma soggiace a vincoli che possono imporsi con legge “nell’interesse della collettività” e con previsione di particolari condizioni di accesso alle singole professioni a tutela di altri interessi costituzionali ( es. come al diritto di difesa in giudizio che deve essere esercitato da professionisti dotati di particolari competenze tecniche specifiche: gli avvocati o come la costruzione di opere di pubblica utilità che deve essere coordinata e diretta dagli ingegneri o dagli architetti, secondo le rispettive competenze).[12] Coerentemente a quanto finora affermato, risulta chiaro che l’esistenza, per alcune professioni intellettuali, di un interesse pubblico al corretto esercizio delle stesse a tutela dell’affidamento della collettività, giustifica e reclama l’intervento legislativo dello Stato. Quest’ultimo non si limita a prevedere per l’accesso requisiti e condizioni specifiche ma si premunisce di istituire al riguardo enti professionali; apparati connotati da segmenti pubblicistici, deputati dall’ordinamento a dare attuazione a normative-presidio dell’interesse pubblico al corretto esercizio della professione.[13] Dal fatto dell’inquadramento degli ordini e dei collegi professionali nel sistema dei pubblici poteri la dottrina tradizionale ha tratto la conseguenza della prevalente cura dell’interesse della collettività al corretto esercizio dell’attività professionale e, quindi, della natura strumentale degli enti professionali. Ora, il dubbio amletico da sciogliere è il seguente: si tratta di enti pubblici e, se si, di enti pubblici di tipo associativo?[14] Innanzitutto, vediamo se si tratta di un ente pubblico e qui la Costituzione e le leggi non ci aiutano affatto, anzi.  La mancanza di una definizione individuata dalla legge o dalla Costituzione rappresenta un’ulteriore ragione che rende particolarmente difficile arrivare ad una nozione condivisa di ente pubblico.[15] Anche la giurisprudenza al riguardo, soprattutto costituzionale, non ha risolto tutti i dubbi.[16] Così la Consulta,  “richiamandosi ai principi costituzionali (in particolare all’art. 38), ha imposto al legislatore alcuni limiti alla pubblicizzazione di soggetti privati, riconoscendo nell’origine da iniziative di gruppi sociali o di singoli individui (la cui attività sia finanziata con mezzi privati e sia svolta prevalentemente da prestazioni volontarie degli stessi soci) la condizione che rende necessario il riconoscimento dell’autonomia privata, trattandosi di un presupposto che non legittima un regime pubblicistico”[17].
Com’è noto, la giurisprudenza  e la dottrina[18] affermano l’esistenza di alcuni indici rivelatori della “pubblicità” di un ente, ravvisabili  nella presenza di finanziamenti pubblici e di controllo, nella costituzione dell’ente ad opera di un soggetto pubblico, la nomina degli organi direttivi in tutto o in parte di competenza dello Stato o di altro ente pubblico,
l’attribuzione di potestà pubbliche, e così via
Tali indici sono ravvisabili negli ordini enei collegi professionali? Non tutti sono applicabili ma la pubblicità degli enti professionali può desumersi sia dal fatto che per struttura, finalità e rapporto con i poteri statuali tali enti godono di spiccata autonomia, associativa, finanziaria, organizzativa, autogoverno “democratico” e sia perché i contributi degli appartenenti servono a curare gli interessi della collettività anche costituzionalmente protetti che sottolineano la rilevanza sociale dell’attività espletata.[19] Non solo, anche le leggi istitutive dei diversi enti professionali sottolineano la valenza pubblicistica delle loro attività, i rapporti tra il gruppo sociale di riferimento e il potere pubblico, a tutela delle libertà costituzionali e interessi costituzionalmente significativi (ad es. pensiamo agli ingegneri che operano nei cantieri e che devono osservare e far osservare le norme e i principi, anche del diritto europeo in materia di appalti pubblici). In buona sostanza, la dottrina è unanime nel qualificare gli ordini e i collegi professionali come enti pubblici associativi per il fatto che essi non sono solo esponenziali del proprio gruppo professionale e che, quindi, godono del potere di eleggere direttamente i propri amministratori ma soprattutto perché hanno il potere legale di decidere direttamente le questioni fondamentali per la vita e l’esistenza duratura dell’ente. [20]

  • I caratteri che rivelano l’applicabilità agli ordini e ai collegi professionali della disciplina del codice dei contratti pubblici: interpretazione sistematica dell’art. 3, comma 1 del codice contratti pubblici o estensione epistemologica della nozione di “organismo di diritto pubblico?

Come sé visto, la qualifica di enti pubblici associativi attribuita agli Ordini professionali pone il problema dell’applicabilità a tali enti delle disposizioni contenute nel nuovo Codice dei Contratti pubblici ( D.lgs n. 50 del 2016).  A tal fine, un’analisi rigorosa non può che prendere le mosse dall’art. 3, comma 1, del D.lgs n. 50 del 2016. La risposta è si e ciò per due ordini di ragioni. Innanzitutto, il legislatore nazionale, in linea con la normativa comunitaria, ha progressivamente ampliato la sfera di operatività della disciplina normativa dei contratti pubblici ai soggetti che, al di là della loro qualificazione formale, pubblica o privata, hanno comunque una sostanza pubblicistica.[21] Tra i soggetti menzionati dal citato art.3 rientrano gli enti pubblici non economici, che sono apparati che si connotano per realizzare uno scopo specifico e sono sottoposti poteri di vigilanza e di indirizzo, più o meno penetranti, da parte dei ministeri o delle regioni. Proprio l’esistenza di questo rapporto di dipendenza, controllo, vigilanza anche finanziaria, consente di intravedere nella categoria degli enti pubblici non economici anche gli enti pubblici associativi e, quindi, gli Ordini professionali. Questi ultimi non perseguono scopi di lucro o simili ma realizzano una specifica finalità pubblicistica, la disciplina e l’organizzazione di professioni di spiccata rilevanza sociale e “costituzionale”. Una tale soluzione ci sembra pacifica ma, anche a non volerla accogliere, difficilmente gli Ordini e i collegi professionali potrebbero sfuggire ad una loro collocazione all’interno della categoria dei cd. “organismi di diritto pubblico”; categoria anch’essa contemplata dall’art. 3 del Codice dei contratti pubblici. Si tratta di enti “ideati” a livello europeo per evitare che gli Stati membri potessero eludere le norme sui contratti ad evidenza pubblica nei casi di enti giuridici definiti ibridi (cioè di natura pubblico-privata, per es. come la Fiera di Milano). Tali “organismi” sono soggetti con personalità pubblica o privata, sottoposti ad un’influenza dominante da parte di una pubblica amministrazione e istituiti per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale. Tali parametri devono sussistere contemporaneamente, per cui anche gli Ordini professionali potrebbero essere configurati “organismi di diritto pubblico” e, come tale, se non si volesse accogliere la prima tesi, sono comunque ricadenti nella sfera di operatività dei contratti pubblici.

          5. Una possibile conclusione.

In definitiva, sembrerebbe che non sussistano motivi per sostenere che gli Ordini e i collegi professionali non siano soggetti al Codice dei Contratti Pubblici. Tale conclusione, coerente con il dato normativo, è stato di recente avallato dall’ANAC (cd. Autorità nazionale anticorruzione, deputata ad assicurare trasparenza e legalità nelle procedure dei contratti pubblici), che ha ribadito che “gli Ordini Professionali hanno natura giuridica di enti pubblici non economici e che, in quanto tali, sono anche in possesso di tutti i requisiti richiesti dalla disciplina di settore per la configurabilità dell’organismo di diritto pubblico.”[22] Secondo l’Autorità, pertanto, tale natura giuridica permette di ricondurre gli stessi nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 50/2016, ai fini dell’affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture. In conclusione, non sembrano sussistere dubbi sulla piena applicabilità delle disposizioni sui contratti ad evidenza pubblica, sia che si teorizzi la posizione dell’ente pubblico non economico, sia si accolga la tesi dell’organismo di diritto pubblico.

* Il Prof. Avv. Gerardo Soricelli è docente del corso di Diritto Amministrativo II presso l’Università degli Studi “Niccolò Cusano” di Roma. In qualità di giurista, insegna Diritto Amministrativo presso la Scuola Superiore di Economia e Finanza del Mef e presso la Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma.


[1] LUZZATO, Voce “Corporazioni ( storia)” in Enc. del dir., X, Milano, 19622, 670; TERESI,  Voce Ordini e collegi professionali in Dig. Disc. Pubbl., X, Torino,1995, 449 e ss

[2] TERESI, op. ult. cit., 450

[3] LEGA, Voce Ordinamenti professionali in Nss.D.I, XII, Torino, 1965, 6 e ss

[4] TERESI, Voce “Ordini e collegi professionali, cit., 451

[5] GESSA, Voce Ordini e Collegi professionali in Enc. Giur. , XXII, Roma, 1991, 1 e ss; LEVI, Libertà fondamentali del professionista ed ordini professionali in Riv, Trim.di dir. pubbl, 1976, 906 e ss. Di particolare pregio scientifico  risultano le ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali delle opere monocratiche più complete come  CATELANI, Gli ordini e i collegi professionali nel diritto pubblico, Milano, 1976; MAVIGLIA, Professioni e preparazione alle professioni, Milano, 1992: Nella sua brillante ricostruzione della evoluzione dei rapporti tra Stato e professioni, SANTORO PASSARELLI, Voce “Professioni intellettuali, in N.D.I., XIV, Torino, 1967, 23 e ss; GIACOBBE, Voce “Professioni intellettuali, in Enc. giur., XXXVI, Milano, 1987, 1066.

[6] Su tutti, in maniera analitica, CATELANI, Gli ordini e i collegi professionali, cit., 100 e ss

[7] GESSA, Voce “Ordini  e collegi professionali, cit., 1

[8] ID., op.ult.cit.

[9] TERESI, Voce Ordini e collegi professionali, cit., 451 e ss

[10] ID., op. ult.cit.,

[11] MAVIGLIA, op.cit., 76 e ss; CATELANI, op. cit., 10 e ss

[12] Corte cost, 16 luglio 1968, n. 102 in Giur. cost.,1968, 1620; Corte cost., 6 luglio 1965, n. 61 in Giur. Cost. 1965, 765.

[13] TERESI, op. cit., 451

[14] GESSA, op. cit., 4; ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, III, L’organizzazione amministrativa, Milano, 1958, 293; CATELANI, op. cit. 134

[15] CIMINI, L’attualità della nozione di ente pubblico in www. Federalismi.it n. 24  del 23 dicembre 2015, 1 e ss

[16] Corte cost., 29 settembre 2003, n. 300 in Giur. comm. 2004, II, 477 (nota di: LOMONACO)

[17]  NAPOLITANO, Gli enti pubblici tra disegni di riforme e nuove epifanie, in La riforma dell’Amministrazione centrale, a cura di G. Vesperini, Milano, 2005, 51 e ss.;  FRANCHINI, L’organizzazione, in Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, a cura di S. Cassese, I, Milano, 2003, 303 in CIMINI, Op. ult. cit., 10

[18] OTTAVIANO, Ente pubblico, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 963 e ss; MENOTTI DE FRANCESCO, Persona giuridica (diritto privato e pubblico), in Nss. Dig. it., vol. XII, Torino,

[19] TERESI, op. cit., 451 e GESSA, op. cit., 2

[20] ROSSI, Enti pubblici associativi. Aspetti del rapporto fra gruppi sociali e pubblico potere, Napoli, 1979, 263 e 244; GESSA, op. cit., 2; D’ALBERGO, Sistema positivo degli enti pubblici nell’ordinamento italiano, Milano, 1969, 226 e ss; TERESI, op. cit., 451; CATELANI, op. cit., 70

[21] IMMORDINO,  I contratti della pubblica amministrazione in Franco Gaetano SCOCA ( a cura di), Diritto amministrativo .Sesta edizione. Torino, 2019, 366

[22] ANAC, adunanza del Consiglio di Autorità del 28 giugno 2017

Stage: quando il tirocinante ha il diritto di essere assunto?

Al termine dello stage il tirocinante non vanta alcun diritto di assunzione nell’azienda salvo che dimostri la sussistenza degli indici tipici della subordinazione, che devono aver caratterizzato tutto il tirocinio.

Il tirocinante, al termine dello stage, non può vantare alcun diritto di assunzione nell’azienda presso cui ha svolto l’esperienza formativa, a meno che non riesca a dimostrare la sussistenza degli indici tipici della subordinazione, che devono aver caratterizzato tutto il tirocinio. A chiarirlo è la Cassazione nella sentenza n. 25508 dello scorso 30 agosto 2022.

Il caso

Un tirocinante, al termine di regolare periodo di stage presso un’azienda, chiede di essere convocato e di essere preso in considerazione per un’assunzione, essendo a conoscenza che un’altra tirocinante aveva beneficiato di questo trattamento. La società respinge le richieste dello stagista e, nel frattempo, bandisce un concorso per l’assunzione di 201 persone, ritenuto dal tirocinante illegittimo poiché violava il suo diritto di precedenza nell’assunzione.

Nonostante le pretese del soggetto ricorrente, ad una prima analisi, non sembravano emergere gli indici rivelatori della subordinazione (necessari per configurare un rapporto di lavoro subordinato) come:

  • l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro;
  • l’inserimento continuativo del lavoratore stesso nell’impresa;
  • il vincolo di orario e la forma della retribuzione.

Il parere della Cassazione

Secondo i giudici della Suprema Corte il rapporto di formazione-stage in capo al ricorrente ha lo scopo di fare conseguire allo stesso un’effettiva formazione che, di fatto, è avvenuta (anche nel rispetto del limite massimo di 12 mesi di durata).

Inoltre, sempre secondo la Cassazione, nessuno degli indici tipici della subordinazione (orario di lavoro fisso e continuativo, retribuzione fissa mensile, continuità della prestazione, vincolo di soggezione al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, inserimento nell’organizzazione aziendale) è stato riscontrato nella vicenda in esame e il ricorrente (sui cui grava l’onere della prova di tali indici) non li ha dimostrati.